L’inizio delle migrazioni dell’età moderna è comunemente individuato nel XV secolo, l’epoca delle grandi esplorazioni geografiche. Il movimento di popolazione fu principalmente quello degli europei verso le Americhe, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sud Africa e quello degli schiavi dall’Africa alle Americhe tra il XVI e il XVIII secolo.
Con la rivoluzione industriale, si registrano dei livelli di emigrazione verso gli Stati Uniti e, più in generale, verso le Americhe e l’Australia, talmente alti da mutare anche la composizione della popolazione, incidendo sulla memoria storica e culturale di questi paesi. Il tutto fu reso possibile dalla diminuzione dei costi e della durata del viaggio. Con la Grande Emigrazione, si spostarono circa 48 milioni di europei; l’immigrazione era addirittura sollecitata dalle campagne di reclutamento organizzate dalle imprese e dalle compagnie navali. Fu solo la Grande Guerra e la Depressione del ‘29 ad arrestare questa grande ondata di flussi intercontinentali.
Nel Secondo dopoguerra si assiste al rilancio dei movimenti migratori, grazie alla ripresa economica che necessita di maggiore manodopera. L’Europa, alla stregua di altre mete internazionali, si afferma come una delle principali aree d’attrazione dei flussi migratori, trasformandosi da prevalente area d’emigrazione ad area d’immigrazione. Questa fase della storia delle migrazioni viene definita fordista, perché coincise con lo sviluppo in Europa della grande impresa e il ricorso a manodopera a bassa qualificazione. Di norma, gli schemi di reclutamento prevedevano una permanenza temporanea, il rilascio di un permesso di soggiorno collegato al lavoro e un accesso limitato ai diritti civili e sociali. Con l’arrivo della recessione economica, dopo lo shock petrolifero del 1973, i paesi europei misero fine alle politiche di reclutamento attivo.
Negli ultimi decenni, le migrazioni hanno assunto sempre più il carattere di un fenomeno globale, arrivando a coinvolgere pressoché tutti i paesi del mondo, sia come società riceventi, sia come aree di origine.
Nel 2019 (gennaio-dicembre) hanno lasciato l'Italia ufficialmente 131 mila cittadini verso 186 destinazioni nel mondo da ogni provincia italiana.
La Fondazione Migrantes redige dal 2006 il Rapporto Italiani nel mondo. In 15 anni il RIM ha fotografato un fenomeno in continuo incremento paragonabile a quello registrato nel secondo Dopoguerra. Se nel 2006 gli italiani regolarmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) erano 3.106.251, nel 2020 hanno raggiunto quasi i 5,5 milioni: in quindici anni la mobilità italiana è aumentata del +76,6%. Una crescita ininterrotta che ha visto sempre più assottigliarsi la differenza di genere (le donne sono passate dal 46,2% sul totale iscritti 2006 al 48,0% sul totale iscritti 2020). Si tratta di una collettività che, nella sua generalità rispetto al 2006, si sta ringiovanendo a seguito delle nascite all’estero (+150,1%) e della nuova mobilità costituita sia da nuclei familiari con minori al seguito (+84,3% della classe di età 0-18 anni) sia da protagonisti giovani e giovani-adulti immediatamente e pienamente da inserire nel mercato del lavoro (+78,4% di aumento rispetto al 2006 nella classe 19-40 anni)